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La salvezza è per tutti. E l'apostolo accettò una religione «laica»
di Salvatore Natoli
Il capitolo 10 degli Atti degli apostoli racconta dell’incontro tra Pietro e il centurione Cornelio. Ciò che il racconto mette in scena è la nota controversia se i pagani potessero essere ammessi nelle comunità cristiane – in senso lato nella Chiesa – senza che venissero sottoposti alle prescrizioni giudaiche, oppure l’osservanza dei precetti era la precondizione per poterli accogliere. La controversia è antica – già presente nella Lettera di Paolo ai Galati – e precede la redazione degli Atti stessi. La natura della controversia indica le seguenti cose:
1) che i primi cristiani – specie la comunità di Gerusalemme – erano certo seguaci di Cristo, ma anche assolutamente ebrei. Se così non fosse, non si sarebbero minimamente posti il problema se estendere o no ai pagani i precetti del giudaismo;
1) che i primi cristiani – specie la comunità di Gerusalemme – erano certo seguaci di Cristo, ma anche assolutamente ebrei. Se così non fosse, non si sarebbero minimamente posti il problema se estendere o no ai pagani i precetti del giudaismo;
2) che i primi cristiani, per quanto si ritenessero ebrei, venivano mano a mano fuoriuscendo dal giudaismo. Gesù, come si legge in altro luogo, era pur venuto per raccogliere le pecorelle perdute d’Israele, ma il suo era un annuncio di salvezza per tutti e in particolare il lieto annuncio ai poveri;
3) che le prime comunità cristiane, pur pensandosi ancora in termini di popolo ebraico, tendono sempre più a riconoscersi più semplicemente come popolo di Dio. E Dio stesso, pur rimanendo il Dio di Abramo di Isacco e di Giacobbe, è soprattutto il «Dio di tutti». Un universalismo, questo, che era già auroralmente presente nella tradizione profetica che vedeva radunarsi in Gerusalemme tutti i popoli;
4) che il giudaismo storicamente ha sempre preservato e ribadito la propria identità, ma in generale non ha praticato il proselitismo. Ciò non vuol dire che non ci si possa convertire al giudaismo, ma nel cristianesimo è accaduto esattamente il contrario; in quanto evangelium, «buona novella», si è formulato fin dalle origini come messaggio universale di salvezza e perciò si fatto da subito predicazione ad extra: andate e predicate, «mi sarete testimoni a Gerusalemme, nella Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» ( Atti 1,8).
Sono queste le coordinate entro cui s’inscrive la storia del centurione Cornelio. Il racconto prende avvio da due visioni il cui significato è semplice quanto decisivo: l’iniziativa dell’incontro non parte né da Cornelio né da Pietro, ma è un’iniziativa diretta di Dio. Perché? Perché Dio è panton Kurios, è il «Signore di tutti» e «non fa preferenze di persone, ma chi
lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (Atti 10, 34,35). Cornelio, infatti, è già all’inizio descritto come «uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio» (Atti 10, 1). Questo versetto è molto più ricco di significati di quanto a prima vista possa sembrare. Intanto Cornelio prega Dio: il che vuol dire che è, sì, un gentile, ma non un ateo. E poi quale Dio prega? Quello d’Israele perché si è ormai acclimatato al contesto e simpatizza per il giudaismo? Oppure prega un suo Dio che deve, a suo modo, essere unico perché in caso contrario sarebbe un idolatra e quindi tutt’altro che pio? Oppure il testo intende alludere a una sorta di religione naturale, a una pietas, a un senso generale di devozione e rispetto che trova la sua piena manifestazione nelle «molte elemosine che faceva al popolo»? Questa, peraltro, era la condotta del giusto: quella indicata nei precetti e ampiamente apprezzata in tutta la tradizione profetica. Ma il testo con queste brevi parole dice probabilmente di più: indica nel legame tra gli uomini e nel reciproco prendersi in carico la religio e ossia quel religare che precede le religioni positive e le fonda. Potrei definire questa lettura, in senso lato, laica, ma non credo sia un’appropriazione indebita; anche il credente può, infatti, ben scorgere nella prassi di Cornelio quella che i teologi chiamavano fides implicita, ossia un modo di comportarsi che, stando agli Atti stessi, non è diverso da quello di Cristo che «passò beneficando e risanando tutti» (10, 38). È cristiano chi pratica giustizia e misericordia – almeno lo dovrebbe – ma lo stesso fa o può fare chi cristiano non è.
Vi è, dunque, un sentimento di comune umanità che spinge gli uomini a essere d’ausilio gli uni per gli altri; il cristianesimo non fa altro che portare questa disposizione ad evidenza e la ribadisce a fronte della sua dimenticanza. Riconoscersi peccatori null’altro è che divenire consapevoli della nostra incapacità d’amare. Esiste, allora, un terreno comune che, a prescindere dalle diverse fedi, può permettere agli uomini di vivere gli uni per gli altri nella pace. A quest’esito si può giungere per diverse vie e ognuno può trovarne una sua propria, senza però mai pretendere che sia l’unica e vera.
Dice, infatti, Pietro: «Forse che si può proibire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?» (Atti 10, 47). Notare: hanno ricevuto lo Spirito non da noi, ma «al pari di noi»... E, allora, dal momento che lo Spirito spira dove vuole, un’autentica apertura agli altri significa mettersi nelle condizioni di discernere dove, quando, in chi lo Spirito agisce. Riconoscerlo e riconoscersi. Questa è la via regia per generare comunità nella libertà.
in “Avvenire” del 5 maggio 2015