«Pienamente cosciente di dove viene la violenza, il 23 marzo monsignor Romero lanciò un grido angustiato ed esigente: «In nome di Dio e di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno, chiedo a voi, vi supplico, vi ordino: cessate la repressione».
Il giorno seguente, di sera, il suo sangue suggellò l'alleanza che aveva fatto con il suo Dio, col suo popolo e con la sua Chiesa.
Domenica 30 marzo avevano luogo i funerali del vescovo martire. Il popolo povero di El Salvador, vincendo difficoltà e fatiche, venne da tutto il Paese per assistere alla sepoltura di «monsignore». Molte persone vennero da fuori, fra loro più di venti vescovi di differenti luoghi del mondo. Il cardinale Corripio del Messico era presente in rappresentanza del Papa, l'inviato del CELAM (Consiglio episcopale latinoamericano) ebbe un contrattempo e non potè essere presente alla celebrazione. La tensione del momento fece sì che solo un vescovo di El Salvador fosse presente. Fatto senza dubbio doloroso, che però fa vedere la difficile e conflittuale situazione che si vive laggiù.
A pochi minuti dall'inizio dell'omelia del cardinale Corripio esplose una bomba e si produssero degli spari. Fu il panico per le 150.000-200.000 persone presenti, famiglie intere, numerosi bambini. La somma dei morti di questa incredibile provocazione fu da trenta a quaranta persone, molte di esse per asfissia.
La sera di quella domenica i vescovi presenti e altre persone si riunirono per mettere in comune ciò che avevano visto e tutto ciò che si sapeva della vicenda durante i funerali. Il risultato di questa analisi dettagliata fu scritto e firmato dai partecipanti. Si rifiutò così la versione dei fatti data dal governo salvadoregno e si indicò il Palazzo Nazionale come il luogo da cui si era lanciata la bomba e si era sparato sopra la moltitudine.
Monsignor Romero non potè allora essere sepolto se non nelle circostanze in cui vive quotidianamente il popolo salvadoregno: in mezzo alle pallottole, alla paura che si cerca di infondergli, però anche alla riaffermazione della volontà di liberazione e di crescita della speranza.
Monsignor Romero è un martire della opzione fatta dalla Chiesa a Medellin e a Puebla. A partire dalla sua morte il significato di questa opzione apparirà più chiaro. Un martire che dà testimonianza del Dio vivo in mezzo alla morte che seminano gli oppressori. Martire del nostro tempo, cristiano scomodo e forte, di vita chiara, umile e serena. La sua morte non è disgraziatamente un fatto isolato e ci permetterà di comprendere molti altri testimoni sparsi in questo continente di dolore e di oppressione, però anche di liberazione e di speranza, che è l'America Latina.
Sul sangue dei martiri si costruisce la Chiesa come comunità che annuncia nella Risurrezione la vittoria definitiva della vita sulla morte. Sul sangue dei martiri si sta costruendo nel nostro subcontinente una Chiesa in mezzo a un popolo che lotta per la sua liberazione. Monsignor Romero descriveva così il suo lavoro, in una omelia: «Il mio lavoro è consistito nel mantenere la speranza del mio popolo, se c'è un poco di speranza il mio dovere è di alimentarla». La sua vita e il suo martirio nutrono e sollevano la speranza del popolo povero, sfruttato e cristiano dell'America Latina e danno vita nuova e impongono nuove esigenze alla Chiesa presente laggiù».
Gustavo Gutierrez, da "Il giorno", 26 aprile 1980