“Se sapessi raccontare una storia con le parole, non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica”. Lewis Wickes Hine (1874 - 1940), sociologo e fotografo statunitense, fu il primo a concepire l’utilizzo della macchina fotografica nei primissimi anni del novecento come strumento per la promozione di riforme sociali, in particolare nell’ambito del lavoro minorile.
Consapevole del valore oggettivo delle sue fotografie, Hine riteneva che esse portassero in sé una carica dirompente, capace di suscitare sdegno e desiderio di cambiamento in una società fondata sullo sfruttamento degli umili e dei diseredati.
Entrò nelle fabbriche, nelle miniere, nelle industrie per la lavorazione del pesce, presentandosi ai padroni delle imprese come assicuratore o venditore di Bibbie o altro, per documentare il lavoro minorile e farne emergere la tragica aberrazione.
In America, agli inizi del secolo scorso, i minori lavoravano fino a 72 ore la settimana. Le manifatture assumevano l’intera famiglia: padre, madre e figli alloggiavano in locali fatiscenti di proprietà della fabbrica e in essa lavoravano con compiti diversi.
Le immagini che Hine scattò furono in effetti talmente forti, talmente autentiche nella loro drammaticità, da favorire davvero un processo di riforma sociale che si concluse con una normativa per la tutela del lavoro minorile.
Egli concepì il suo lavoro come elemento di un pacchetto comunicativo più ampio, esposto in forma di conferenze, proiezioni, articoli di giornale, nelle quali la fotografia assumeva un ruolo di testimonianza e di coinvolgimento emotivo dello spettatore. Anche il dolore può riuscire a creare partecipazione emotiva se condiviso con il grande pubblico nella forma più estetica possibile. E’ proprio questa la chiave di Hine, coniugare denuncia e bellezza in immagini che colpiscono attraverso questo contrasto, come se la bellezza acuisse anziché smorzare il drammatico messaggio trasmesso dalle sue fotografie.
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