La speranza si può imparare
di Giancristiano Desiderio
Un saggio dello psichiatra Eugenio Borgna esplora la «passione del possibile» (e il suo contrario). Oltre la medicina

Quante volte parlando con un amico o ragionando con noi stessi in un dialogo interiore concludiamo dicendo: «Speriamo»? Quasi sempre. Perché la speranza fa parte di noi più di quanto non siamo disposti ad ammettere ed accettare. Fa così parte della condizione umana, la speranza, che non solo è, come dice Foscolo nei Sepolcri, l'ultima dea a fuggire, ma è dalla sua fuga o dalla sua assenza che nasce la sorella o sorellastra: la disperazione.
Il filosofo danese Kierkegaard, il padre riconosciuto dell'esistenzialismo, distingueva tra angoscia e disperazione e mentre per la prima riconosceva una via di salvezza, per la seconda parlava di «malattia mortale» ossia lo stato in cui non si è né vivi né morti e ci si dispera. Accade, diceva l'autore di Aut-Aut, quando l'uomo rifiuta di essere una creatura e si concepisce come un essere perfettamente autonomo mentre gli esseri umani, che i Greci chiamavano i mortali, sono creature fragili.
È da qui che prende ispirazione Eugenio Borgna per il suo ultimo libro: Speranza e disperazione (Einaudi). Un testo per tutti perché, pur considerando i limiti propri della psichiatria, si rivolge ai comuni lettori che, speranzosi o disperati che siano, vanno alla ricerca di un ubi consistam e, più semplicemente, di fiducia.
Eugenio Borgna ha praticato la scienza psichiatrica sul campo — nel manicomio di Novara — e nel libro ritornano le esperienze cliniche dei pazienti, le loro testimonianze, i dolori, i drammi, le angosce e la ricerca nel tentativo di ascoltare e dare un senso alla vita. Tuttavia, proprio perché speranza e disperazione non riguardano solo casi estremi ma toccano le esistenze comuni, la vita che ci accomuna, Borgna porta la psichiatria oltre la psichiatria e incontra la letteratura, la filosofia, la poesia, che sono tutti modi o «vie» per esprimere le angosce umane e dare un senso di speranza alle nostre desideranti fragili vite.
Non a caso al centro del libro, così ricco di richiami e di rimandi, da Agostino a Pascal, da Kierkegaard a Jaspers, da Goethe a Benjamin, vi sono due letterati e poeti come Giacomo Leopardi e Cesare Pavese. Del primo si assume la «filosofia» di fondo, che apre proprio il volumetto di Borgna con una frase ripresa dallo Zibaldone: «Insomma la disperazione medesima non sussisterebbe senza la speranza, e l'uomo non dispererebbe se non isperasse». Eccole qui le due sorelle gemelle: speranza e disperazione. Figlie della stessa madre che, a volte, albergano nello stesso cuore, straziandolo.
Del secondo, di Cesare Pavese, si

analizza attraverso le lettere, il diario, le poesie, un'esistenza dominata dalla solitudine fino al punto in cui, proprio la solitudine, avrà la meglio e sopraggiungerà la morte con il suicidio, che è l'ultima forma che assume lo stato d'animo depressivo della disperazione. «Il suicidio non sarebbe avvenuto — scrive Borgna — se fossero stati diversi gli avvenimenti che ne hanno contrassegnata la vita? Il desiderio di suicidio si è manifestato nell'adolescenza di Pavese, ma l'amore di Costanze Dowling avrebbe potuto salvarlo dalla morte volontaria?».
Non lo sappiamo e non lo sapremo mai, ogni suicidio, dice proprio Jaspers, medico psichiatra e filosofo, è un mistero; e Borgna risponde con onestà intellettuale «non lo so», mentre attraverso la vita e la morte, la solitudine e la poesia di Pavese — «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» — ha voluto mettere in luce quanta importanza abbia avuto l'assenza della speranza nel non dare un senso alla vita dell'autore de La bella estate.
Lo sforzo dello psichiatra, che qui si fa scrittore, è quello di offrire una sorta di fenomenologia della speranza nel tentativo di illuminare il lato oscuro dell'animo umano e mostrare che «la speranza è apertura» che riscatta passato e presente affacciandosi sul futuro. Diceva un grande santo come Alfonso de Liguori — «simpatico santo napoletano» secondo la definizione simpatetica di Croce — che la vita è un'affacciata di finestra. Ecco, a suo modo la speranza è questa affacciata: è, per dirla con l'espressione di Kierkegaard che lo psichiatra fa sua, «passione del possibile» che non esclude che la luce possa irrompere anche nelle notti oscure dell'anima, di un'anima eternamente inquieta.
La speranza e la disperazione sconfinano l'una nell'altra. Leopardi nello Zibaldone lega indissolubilmente speranza e vita e dice: «Io vivo, dunque io spero». Ogni attimo della vita di un uomo è caratterizzata dall'atto sperante che in fondo è un modo di desiderare la vita e il nostro attaccamento all'amor proprio. Quando alla perdita della speranza subentra la disperazione può l'uomo rifiutare la vita stessa. In quel momento tutto è nero come l'Abisso e dall'Abisso si è risucchiati perché si è soli. Ecco perché è così importante tenere aperto sempre un dialogo, con sé e con gli altri: gli esseri umani — i mortali — alla fine sono un'intelaiatura di relazioni e la speranza, essa stessa così fragile e mutevole, nasce muore e rinasce proprio nelle relazioni che riguardano gli altri e il tempo della nostra vita fatta, come ripeteva Agostino, di passato o memoria, di presente o intuizione, di futuro o attesa.
È importante, allora, non solo sperare ma soprattutto imparare a sperare come forma di conoscenza dell'umanissima condizione. Già Eraclito, agli albori del pensiero, invitava a ben sperare giacché «se non spera non troverà l'insperato». Ma cosa sperare oggi? La speranza di fede in un Dio oltremondano è cosa unica più che rara, è cosa che sembra appartenere al mondo delle favole di cui parlava Nietzsche; tuttavia, l'uomo, che creda o no in un Padre, è pur sempre una creatura e la sua dimensione creaturale lo rende per sua esperienza storica e per sua necessità «aperto» alla fiducia. La speranza è, in fondo, per un essere che non è il padrone dell'esistenza, una forma di fiducia nella vita: come se la speranza fosse religiosa e la fiducia laica. Come non è possibile vivere senza speranza, così non è dato vivere senza fiducia: è un modo di essere fedeli alla vita, di non tradirla e di accoglierla nei suoi timori e tremori, nelle sue fragilità, nelle sue solitudini che chiedono aiuto.
in "Corriere della Sera" del 19 agosto 2020