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"Non muoia, signor padrone, non muoia. accetti il mio consiglio, e viva molti anni, perché la maggior pazzia che possa fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morir così senza un motivo, senza che nessuno lo ammazzi, sfinito dai dispiaceri e dall’avvilimento. Su, non faccia il pigro, si alzi da questo letto, e andiamocene in campagna vestiti da pastori come s’è fissato, e chi sa che dietro a qualche siepe non si trovi la signora Dulcinea disincantata, che sia una meraviglia a vedersi".
Miguel de Cervantes
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#I giardini di Dio
di Gianfranco Ravasi
"Non scongiurare la morte / di lasciarlo qui sulla Terra: / ha già sentito il profumo di Dio, / lascialo andare nei suoi giardini".
Mi ha sempre impressionato il fascino che Alda Merini generava spontaneamente nei giovani quando l’ascoltavano e parlavano con lei. Come è noto, spesso il suo linguaggio era oracolare, talora persino brusco o indecifrabile. Eppure la sua stessa persona, segnata da vicende aspre e immersa in ambienti degradati, creava attorno a sé un alone di rispetto e attrazione. La sua opera poetica, nell’ultima fase di un’esistenza travagliata, aveva ricevuto una sorta di ispirazione religiosa e si era trasformata in contemplazione del Cristo o di Maria o di Francesco d’Assisi.
Fu in quel periodo che Alda si affezionò a me, e le sue interminabili telefonate si colmavano di un’incessante sequenza di immagini, di interrogativi, di narrazioni teologiche. Ho voluto proporre – sul filo dei ricordi personali – alcuni pochi versi che mi aveva inviato alla vigilia del funerale di mio padre, nell’aprile 2007. Nella loro limpida essenzialità sono una profonda meditazione pasquale sulla morte. Il distacco dalla persona cara è sempre lacerante e non vale la giustificazione dell’età o della comune caducità. Ma lo sguardo poetico e credente s’affaccia oltre quella frontiera, aspira il vento dello spirito, respira il profumo dei giardini paradisiaci. Bisogna, allora, avere il coraggio di non trattenere la mano del caro che ci sta lasciando perché egli segua quell’aroma ed entri nell’eterno e nell’infinito di Dio.
in “Il Sole 24 Ore” del 9 aprile 2023
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«Pasqua è voce del verbo ebraico “pèsah”, che significa “passare”. Non è festa per residenti ma per coloro che sono migratori che si affrettano al viaggio.
Da non credente vedo le persone di fede così, non impiantate in un centro della loro certezza ma continuamente in movimento sulle piste. Chi crede è in cerca di un rinnovo quotidiano dell’energia di credere, scruta perciò ogni segno di presenza. Chi crede, insegue, perseguita il creatore costringendolo a manifestarsi. Perciò vedo chi crede come uno che sta sempre su un suo “passaggio”. Mentre con generosità si attribuisce al non credente un suo cammino di ricerca, è piuttosto vero che il non credente è chi non parte mai, chi non s’azzarda nell’altrove assetato del credere.
Ogni volta che è Pasqua, urto contro la doppia notizia delle scritture sacre, l’uscita d’Egitto e il patibolo romano della croce piantata sopra Gerusalemme. Sono due scatti verso l’ignoto. Il primo è un tuffo nel deserto per agguantare un’altra terra e una nuova libertà. Il secondo è il salto mortale oltre il corpo e la vita uccisa, verso la più integrale risurrezione. Pasqua/pèsah è sbaraglio prescritto, unico azzardo sicuro perché affidato alla perfetta fede di giungere Inciampo e resto fermo, il Sinai e il Golgota non sono scalabili da uno come me, che pure in vita sua ha salito e sale cime celebri e immense. Restano inaccessibili le alture della fede.
ALLORA SIA PASQUA PIENA PER VOI CHE FABBRICATE PASSAGGI DOVE CI SONO MURI E SBARRAMENTI, PER VOI APERTORI DI BRECCE, SALTATORI DI OSTACOLI CORRIERI AD OGNI COSTO, ATLETI DELLA PAROLA PACE».
Erri De Luca
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Tradizione rispettata: in almeno uno dei tre giorni della merla, usare la moto! Quest'anno l'impresa non è stata granché: purtroppo, una splendida giornata "troppo calda"!
Mc
“I giorni della merla” sono, secondo la Treccani, un’espressione di origine lombarda che allude a un’antica leggenda, tramandata di generazione in generazione, circa le sorti di una bella e candida merla. Secondo la leggenda, nei giorni più freddi (29, 30 e 31 gennaio) di un rigido e lungo inverno, una merla dal piumaggio bianco si sarebbe rifugiata sopra un comignolo, insieme ai suoi pulcini, per ripararsi dal freddo. Una volta superati quei giorni, la merla si sarebbe allontanata completamente nera, a causa della fuliggine depositata sul suo candido piumaggio.
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#domande e risposte
di Gianfranco Ravasi
"La stupidità della gente deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva, invece, dall’avere una domanda per ogni cosa".
Era il 1984 e nelle librerie spopolava un’opera dello scrittore Milan Kundera, "L’insostenibile leggerezza dell’essere". A distanza di molti anni, lo riprendo in mano e ritrovo l’affermazione che ho proposto e che è sostanzialmente un elogio della domanda. Certo, echeggiano spesso nell’aria interrogativi stupidi o inutili; ma ai nostri giorni, soprattutto nei viali informatici, imperano le risposte tanto più asseverative e sprezzanti quanto più sono false e fuorvianti. A Picasso si attribuisce questo motto radicale pronunciato nell’èra in cui tale strumento iniziava ad affermarsi: «I computer sono inutili. Ti sanno dare solo risposte».
Certo, come suggeriva ironicamente un citatissimo Oscar Wilde, «a dare le risposte sono capaci tutti; è a fare le vere domande che ci vuole un genio». E questo è il problema: l’interrogare autentico che fa progredire la scienza, la ricerca aperta all’acquisizione, lo sguardo che perfora la realtà e l’esistenza senza accontentarsi della superficie ovvia, sono esercizi che richiedono già una sapienza di base. Per questo l’ars interrogandi non si adatta allo spumeggiare delle idee vane, ma sboccia dal terreno fertile e arato dello studio e di una conoscenza previa. E, come ammoniva san Paolo, «vagliate e pesate tutto, ma trattenete e conservate ciò che è kalon (bello/buono)» (1 Tessalonicesi 5,21), mentre la poetessa polacca Wislawa Szymborska concludeva: «Chiedo perdono alle grandi domande per le piccole risposte», che di solito noi tutti diamo.
in “Il Sole 24 Ore” del 22 gennaio 2023
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Chissà se qualcuno ha chiesto a qualche defunto di compiere il miracolo di battere lo stile mafioso (ovunque si manifesti).
Magari potrà essere un buon punto di partenza per la causa di canonizzazione.
Marco Paleari, 230116
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#per mano
di Gianfranco Ravasi
"Un vento glaciale infuria da nord, / la neve vien giù a larghi fiocchi. / Amici miei, prendiamoci per mano, / e andiamocene via tutti insieme".
Figura dai contorni mitici, Confucio è un po’ il vessillo dell’antica cultura e spiritualità cinese. Vissuto tra il VI e il V secolo a.C., ha generato una tradizione che gli ha attribuito una serie di opere tra le quali spicca il Libro delle Odi, destinato a una fama parallela a quella assegnata ai Dialoghi. Abbiamo citato pochi versi capaci di creare visivamente un quadretto invernale retto su un contrasto. Da un lato, c’è il brivido che pervade il corpo col soffio del vento gelido e con la neve che scende a larghe falde. D’altro lato, c’è il tepore di due mani che si stringono e che spingono a sfidare il freddo e a raggiungere un riparo o una meta sicura.
«Prendersi per mano» è un’espressione comune per indicare una solidarietà nel pericolo o nella prova; è il passaggio dall’«io» autoreferenziale e orgoglioso al «noi» fraterno. Rimanendo nell’atmosfera sapienziale antica, ascoltiamo un ideale commento al tema, offerto dal Qohelet/Ecclesiaste, sapiente biblico del III secolo a.C.: «Meglio essere in due che uno solo: se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai a chi è solo! Se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi: ma uno solo come fa a riscaldarsi?» (4,9-11). Come ha proposto il filosofo francese Jean-Luc Nancy (1940-2021), all’affermazione Ego sum, «io sono», è necessario aggiungere sempre un Ego cum, «io sono con» l’altro, col mio prossimo, e solo così si ha la pienezza della persona.
in “il Sole 24 Ore” del 15 gennaio 2023
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Epifania, mistero meraviglioso
di Tomaso Montanari
"Adorazione dei magi" (1495-1500), del Bramantino, ora alla National Gallery di Londra
Questa piccola tavola quasi quadrata è capace di contenere tutto insieme *il triplice mistero dell'Epifania del Signore: l'adorazione dei Magi, il battesimo nel Giordano e il miracolo dell'acqua trasformata in vino nelle nozze di Cana*.
La fantasia di Bramantino, capace di calare astruserie medioevali nello spazio di Bramante (e, qui, in un'architettura che pare quasi quella di Brunelleschi) sembra fatta apposta: e il risultato è straniante quasi come quello della Flagellazione di Piero, dipinta mezzo secolo prima.
Come in una Sacra Conversazione, che non si cura dei tempi storici ma vive nell'eterno presente di Dio, i Magi trovano ad aspettarli non solo la Sacra Famiglia (col Giuseppe in rosso, nell'ombra alla sinistra di chi guarda), ma anche un Giovanni Battista (anche lui in rosso, a destra) che dovrebbe avere solo sei mesi più del cuginetto appena nato, e invece qua è uomo fatto e lo indica nella sua veste di Precursore.
Anche i Magi, del resto, sono strani: il vecchio burbero a sinistra si è appena tolto il turbante, poggiandolo ai piedi della Vergine, accanto al cubo rosa e al largo vaso verde che contengono i doni degli altri due Re. Lui, invece, il suo vaso metallico alto e stretto lo poserà lì tra poco, salendo sulla pedana.
Alla nostra destra, in primissimo piano, un personaggio più giovane offre un altro recipiente rosa: l'acqua da trasformare in vino per le nozze? E gli altri due Magi, dove sono? Forse vanno identificati con la figura del moro dal turbante rosso, e con quella del giovane dal turbante azzurro: i quali, avendo già fatto il loro dovere, si sono già un po' allontanati, e aspettano alla nostra destra? cofaghi vuoti, dello stesso colore dei tre doni, posti in primo piano? Forse sono le future tombe dei Magi, che si trovavano proprio nella Milano di Bramantino, in Sant'Eustorgio, e che Federico Barbarossa aveva svuotato portando i corpi a Colonia?
Non era facile dipingere la rivelazione di un mistero a tutte le genti: e di un mistero grande come quello di un Dio onnipotente incarnato in un bambino. Ma qua c'è tutto: c'è la carne e c'è il mistero. E c'è l'apertura a tutti i popoli del mondo: rappresentata in modo insuperabile da quella Madonna che indossa anche lei un turbante. Perché da quel momento in poi, che lo vediamo o no, non ci sono più identità, nazionalità, costumi diversi, ma solo il mistero meraviglioso della nostra comune umanità.
in “il Venerdì” del 6 gennaio 2023
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#la bontà illogica
di Gianfranco Ravasi
"Oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla".
Fu tra i primi a varcare la soglia del palazzo della Cancelleria di Berlino raggiungendo l’ufficio di Hitler, da ufficiale dell’Armata Rossa. Ma fu anche successivamente un perseguitato dalla brutalità paranoica di Stalin, fino alla morte per cancro a 59 anni nel 1964. È Vasilij Grossman, scrittore ebreo sovietico, a lasciarci nella sua opera Vita e destino (1960) questa bella testimonianza sulla bontà quotidiana, generosa, delicata, gratuita, immotivata e «illogica» agli occhi di chi, invece, tutto calcola e soppesa anteponendo il proprio vantaggio.
L'amore vero sciala, non rispetta le leggi dell'interesse personale, dona e si dona con gioia, tant'è vero che si è soliti dire che, quando due innamorati elencano il costo dei regali che si sono fatti, è perché stanno ormai lasciandosi. L'amore autentico e pieno è illimitato, come sa bene un genitore, pronto a mettere in pratica una delle ultime frasi pronunciate da Gesù prima di essere arrestato: «Non c'è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13). La bontà «illogica», però, non si manifesta solo in questi estremi, ma si rivela – forse con più coraggio – ogni giorno nei piccoli gesti della quotidianità. È forse questo il vero eroismo, umile e nascosto, senza gloria e gratitudine, e quindi alto e puro.
in “Il Sole 24 Ore” del 3 aprile 2022
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Mette tristezza vedere che i cattolici,
che - come tutti i credenti in Cristo -
avrebbero la possibilità di accedere alle fonti della Luce, della Sapienza, della amorevole Verità di Dio Padre,
si lascino guidare dalle emozioni,
quelle definibili come "banali", "scontate", "generiche", "effimere".
Non è genericamente "il mondo" quello che vive di emozioni;
non è genericamente "la società" quella che segue modelli divergenti dal Vangelo nella considerazione delle persone e delle cose;
siamo noi, noi della famiglia dei discepoli cattolici di Gesù.
Idolatri del culto delle emozioni,
senza spina dorsale,
abbindolati da slogan, salamelecchi, interessi.
Condotti da pifferai di affermazioni inutili,
mercenari unti,
maestri nella diabolica arte di abbindolare chi
- a volte colpevolmente -
è povero negli affetti, nella mente e nell'onestà intellettuale.
Come disse l'Unico Maestro,
"i poveri li avete sempre con voi" (Mc 14,7),
e anche a questi approfittatori bisogna voler bene.
Marco Paleari, 230105
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Da tempo assistiamo ad un neo-nominalismo: assegniamo alle parole un significato diverso da quello che esse hanno, piegandole al contentuo che vogliamo comunicare.
Oppure - il che è peggio - usandole per mascherare il vuoto.
"Parole di circostanza", le chiameremmo.
"Parole riempi-bocca" per affabulatori del nulla.
"Parole senza senso e senza morale", sdoganate da urlatori senza cuore, senza fegato, senza midollo.
"Parole profumate di essenze o di incenso", sbuffate da cortigiani.
"Parole sgrammaticate", senza un ordine logico nè sintattico, fatte per riempire post, colonne di giornale, dichiarazioni, interviste.
I più ignoranti, gli sbadati, i pusillanimi, gli approfittatori... ci cascano o ci sguazzano, fungendo da amplificatori non incolpevoli.
Marco Paleari, 230102
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"Il testo è di una semplicità delicatissima, e tratteggia, come innumerevoli altri canti tradizionali, la scena di Maria e Giuseppe che camminano verso Betlemme e chiedono accoglienza, per sentirsi rispondere bruscamente così:
Se traen cartos que entren
e senon que se vaian.
Ossia: se avete soldi (cartos), entrate, e altrimenti andate via. Al che Giuseppe, il quale si ritrova in tasca solo «un real de plata» (una moneta d’argento), si cruccia, vedendosi respinto con la sua «Nena ocupada, fermosa» (bella ragazza incinta).
Maria però lo consola:
Non te apenes Xosé,
non te apenes por nada,
¿qué máis cartos ti queres
que isto que me acompaña?
Non darti pena, Giuseppe, non darti pena per nulla. Che soldi vuoi, [che valgano] più di Colui che mi accompagna? (...)".
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